Il parere del WWF di Rovigo sulla proliferazione di allevamenti intensivi e di altre attività insalubri in Polesine
In questi giorni abbiamo appreso che Rovigo può “vantare” il secondo posto in Italia nel poco edificante podio delle città più inquinate d’Italia in una pianura padano veneta che è risaputo essere tra le aree più inquinate al mondo. Contemporaneamente abbiamo appreso di istanze di apertura di nuovi impianti zootecnici di raddoppio della discarica di Sant’Urbano, quasi si pensasse che tutte queste cose non abbiano alcuna relazione fra loro. Con la “ciliegina” di 8.500 tonnellate di ceneri ai metalli pesanti sparse illegalmente nelle campagne di 19 comuni polesani, l’impressione forte che emerge è che nel nostro territorio come in molti altri in Italia che pagano il conto di essere realtà di provincia dimenticate, la situazione sia decisamente sfuggita di mano.
Il sorgere di alleanze tra gruppi e comitati spontanei in Polesine per fare un fronte comune contro l’inquinamento ambientale e il consumo di suolo che sembrerebbero non conoscere fine, è un ulteriore segnale di perdita di fiducia da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni ma anche degli organismi tecnici garanti della salute pubblica e della salubrità ambientale.
Possiamo ancora parlare di “percezione alterata della realtà” o di nemici della Crescita e dello Sviluppo come questa Associazione, che oggi scrive a 42 anni dalla sua fondazione, si è sentita dire tante volte nel corso della sua storia?
Per rispondere a questa domanda, in primo luogo basterebbe semplicemente confrontare i dati sulla qualità dell’aria che respiriamo con l’avanzamento di progetti dichiarati a norma sotto il profilo delle emissioni, e che pure potrebbero esserlo, ma che andrebbero comunque a sommarsi a condizioni generali dell’aria e dell’acqua innegabilmente fuori norma, per comprendere che nel “sistema” c’è qualcosa che non funziona. In particolare risulta del tutto assente quella visione di insieme che riconosca la situazione specifica nel quadro generale di impianti inquinanti già operativi su un territorio con caratteristiche climatiche pedologiche e geografiche come il Polesine, che favoriscono oltremodo la stagnazione di gas in atmosfera per non parlare delle falde affioranti ad elevato rischio contaminazione idrica e dei terreni già saturi di nitrati per loro natura.
Sebbene sia vero non manchino le leggi di pianificazione territoriale dedicate a tali attività produttive, è altrettanto vero che un tassello importante, necessario alla corretta applicazione di tali leggi sia carente o, per meglio dire, non pervenuto. Le norme assegnano, per restare in ambito locale, alla Provincia (e, a cascata, a tutti i comuni per il proprio PAT), attraverso il PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale) il compito di porre in essere il piano di monitoraggio ambientale che deve costantemente verificare la sostenibilità del piano ed eventualmente intervenire sulle matrici ambientali individuate dalla VAS. Ebbene tale piano di monitoraggio doveva scattare dal 2012 ma a sette anni di distanza non è proprio scattato. Eppure in assenza di un elemento di giudizio fondamentale costituito dagli effetti cumulativi che si originano per l’attuazione delle previsioni di piano, conferenze di servizi e commissioni di VIA (presiedute in molti casi dalla stessa Provincia) sentiti i vari pareri di rito, continuano a procedere con l’avanzamento degli iter autorizzativi raccogliendo qua e là le osservazioni della tale associazione o del tale comitato che se avranno la fortuna di trovare nel progetto qualche cavillo di cui altri più titolati avrebbero dovuto accorgersi, forse potranno stoppare o ridimensionare progetti che diversamente andrebbero dritti alla meta senza grossi intoppi.
Già decretare la sospensiva a ogni nuova istanza di autorizzazione su attività produttive potenzialmente impattanti in assenza del piano di monitoraggio ambientale, per il semplice principio di precauzione toglierebbe i sindaci dall’imbarazzo di difendere l’indifendibile appellandosi a norme incompiute e i comitati di ingaggiare battaglie dall’esito incerto sul piano prettamente formale. E’ una responsabilità di cui dovrebbe occuparsi la politica, che non può continuare ad appellarsi a leggi “depotenziate” dimenticando di esserne il Legislatore.
Per concludere veniamo all’economia, da cui tutto parte e a cui tutti guardano come elemento di giudizio. Qualcuno potrebbe pensare che in un territorio in sofferenza come il Polesine, i suoi più prossimi amministratori, sindaci in primis, non possano concedersi il lusso di vagliare le tipologie di investimento che calano sul territorio, dal momento che questi sembrerebbero essere gli unici investimenti privati sulla piazza. Non vorremmo invece che questa sindrome da rassegnazione fosse il sintomo di classi politiche e dirigenti ferme su ristretti interessi localistici, o ancora peggio clientelari, che nulla hanno a che vedere con il pubblico interesse di cui sulla carta sarebbero garanti.
Un rapporto costi/benefici serio va posto in ogni caso. Se fra i benefici inseriamo il guadagno dell’imprenditore, qualche posto di lavoro (poco invidiabile peraltro) e entrate nelle casse del comune in forma di tasse e oneri di urbanizzazione, nel piatto dei costi dovrebbe comparire il conto dei danni da imperizie o malfunzionamento degli impianti di contenimento e di depurazione, da fuga di animali esotici (in particolare se si tratta di allevamenti di visoni). Quanto ai costi sanitari che sono salatissimi li sta già pagando la collettività, a giudicare dal quadro ambientale da cui partiamo. Infine all’aumentare delle concessioni nella realizzazione di impianti potenzialmente pericolosi siamo sicuri che aumenteranno di pari passo gli strumenti di controllo e gli organi di vigilanza che già oggi risultano palesemente insufficienti? Perché se così non fosse l’impunità invece che arginata ne verrebbe rafforzata. E comunque anche la vigilanza va messa sullo stesso piatto dei costi (anch’essi, guarda caso, a carico della collettività).
Siamo dunque certi che con il gioco “guadagni privati e pubbliche perdite” si faccia il bene della collettività?
Eppure chiunque, guardando appena oltre la punta del proprio naso, assisterebbe al fiorire di un progressivo interesse sui temi della rigenerazione territoriale e dell’economia circolare. Laddove si presentano progetti che puntano al recupero di aree verdi degradate, alla riqualificazione edilizia, al miglioramento ambientale, all’agricoltura di qualità, alla produzione di materiali meno impattanti, allo sviluppo di percorsi verdi rivolti ai residenti e a un turismo che si sta tingendo sempre più di verde, le sale si riempiono e si chiede a gran voce di investire su questi modelli di sviluppo. Si tratta pertanto di scelte, neppure troppo coraggiose, ovvero spostare risorse e incentivi destinati al consumo di risorse naturali su progetti di sviluppo dal segno esattamente opposto che sul nostro territorio non mancherebbero certo, ma che non godono dell’attenzione che meriterebbero da parte di istituzioni e investitori.
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